C’è una ragione che spinge, ogni anno, più di 20.000 persone a recarsi in un paesino che solitamente conta poco più di 200 anime. È una ragione antica, radicata nel profondo di ognuno di noi, una curiosità atavica e mai sopita. È il desiderio di scoprire il diverso, l’inconsueto; di lasciarsi alle spalle l’ordinario per ritrovare l’elemento naturale, in tutta la sua schietta e affascinante semplicità. Ogni anno a Cocullo si ripete la stessa magia: il passato torna a farsi presente con tutta la sua potenza evocativa.
Quello dei serpari di Cocullo è un rito millenario legato a déi e spiriti dimenticati, un mondo sotterraneo di cui i serpenti sono silenziosi e affidabili araldi. L’evento mescola folklore e devozione, in una cornice incantevole che richiama curiosi e studiosi da tutto il mondo. È la tradizione che permette al piccolo borgo di resistere, di sopravvivere a oblio e spopolamento; è il passato che assicura un futuro.
Da Angizia a San Domenico
Questa terra nell’alta Valle del Sagittario fu luogo d’incontro di Marsi e Peligni, accomunati da culti e usanze come la devozione per la dea Angizia. Questa divinità d’origine anatolica era venerata nell’Italia centro-meridionale, considerata guaritrice, esperta di erbe e maga come le sue sorelle Medea e Circe.
Angizia era altresì legata al mondo ctonio, l’universo invisibile nascosto sotto i nostri piedi. In primavera, la dea veniva onorata con un’offerta di serpenti vivi in segno di devozione e per propiziare fertilità e abbondanza. Le arti di Angizia furono ereditate dai Marsi, descritti da Plinio il Vecchio come detentori di misteriosi poteri magici, tra cui l’immunità al veleno dei rettili.
Dalle mani di Angizia il groviglio di serpi è passato sulle spalle di San Domenico; sono cambiati i protagonisti ma non il significato. L’abate di Foligno ha raccolto il testimone di una tradizione millenaria e radicata alla vita agreste, legandola ai suoi rinomati poteri taumaturgici. Così il rito è sopravvissuto all’avvento del Cristianesimo, adattato alle esigenze ma rimasto immutato nel valore simbolico. San Domenico, proprio come Angizia, rappresenta l’intermediario fra due mondi, l’entità che viene in soccorso agli uomini preservandoli dai pericoli della natura.
San Domenico soggiornò a Cocullo sul finire del X secolo; quando lasciò il paese, donò agli abitanti un dente molare e un ferro della sua mula. Attorno a queste reliquie è cresciuta la devozione per il santo, considerato protettore contro le tempeste, il mal di denti e il morso di lupi e serpenti.
I serpari del terzo millennio
Dal 2012 la festa dei serpari di Cocullo si tiene il 1° maggio. La celebrazione del rituale nel giorno di San Domenico si deve all’arciprete don Crescenzo Arcieri e risale al Settecento.
I serpari sono i discendenti del ciarallo, una sorta d’incantatore di serpenti che nel Medioevo si credeva fosse dotato di poteri semidivini. I rettili vengono catturati all’inizio di aprile, scegliendo tra le specie più innocue come il saettone, la biscia dal collare, il biacco e il cervone.
Per le strade s’incontrano numerosi serpari, uomini e donne – novità degli ultimi tempi – che hanno catturato con le proprie mani il loro amico strisciante, che ora mostrano con comprensibile orgoglio. Colpiscono soprattutto i serpari più giovani, ragazzi o addirittura bambini che maneggiano i rettili con maestria e attenzione, seguendo gli insegnamenti ricevuti da nonni e genitori. È uno spettacolo per gli occhi e per il cuore perché testimonia la resilienza della tradizione, il suo persistere a dispetto dello scorrere del tempo, dell’avanzata del digitale, della globalizzazione e dello spopolamento.
I giovani serpari di Cocullo hanno saputo raccogliere il lascito di chi li ha preceduti, degni discepoli di San Domenico e Angizia, custodi di qualcosa che sanno essere molto importante. Nei loro sguardi sicuri, nel rispetto e nella naturalezza dei loro gesti, c’è tutta la forza del legame con la propria terra, delle radici che non muoiono mai, che si rigenerano attraverso le generazioni.
La festa di San Domenico
Tutto inizia con l’arrivo dei pellegrini accompagnati dal suono di piffero e zampogna. Il paese è letteralmente invaso da turisti, fedeli, fotografi e giornalisti, tutti in cerca dei serpari e dei loro striscianti compagni. I cocullesi si prestano volentieri a foto e chiacchiere, offrendo la possibilità di sperimentare il contatto col serpente. Il gesto di mettere il rettile sulle spalle richiama l’intento scaramantico di scacciare sfortuna e dispiaceri, come a voler esorcizzare il male con il male stesso. Nella tradizione cristiana, infatti, questi animali sono considerati il simbolo del maligno, l’incarnazione di Satana.
Nonostante i pregiudizi, a Cocullo si percepisce chiaramente la valenza sacrale del serpente, il suo ruolo di creatura misteriosa e affascinante legata al mondo sotterraneo. È proprio in questa confidenza con i rettili, in questa sorta di amorevole simbiosi tra serpente e serparo, che risiede il lascito dell’età pagana, quel filo con la dea Angizia, esile ma mai reciso.
Dal 2009, a causa del sisma che ha reso inagibile il Santuario di San Domenico, la festa si svolge nella chiesa trecentesca della Madonna delle Grazie. Per prima cosa ci si dedica a un rituale tradizionale quanto folkloristico: i fedeli suonano la campanella posta sulla destra della navata, tirandola per tre volte con i denti per scongiurare le odontalgie. Ci si sposta poi sulla parante opposta per raccogliere una manciata di terra benedetta proveniente dalla piccola grotta del santuario.
Serpenti in offerta al santo abate
Dopo la messa arriva il momento più intenso della festa dei serpari di Cocullo, con l’uscita della statua del santo dalla chiesa. Nella piazza gremita, sotto migliaia di sguardi attenti e bramosi – e altrettanti obiettivi fotografici – avviene una “vestizione” del tutto particolare, unica nel suo genere: San Domenico è ricoperto non di abiti e stoffe preziose bensì da rettili vivi e striscianti. Un corposo groviglio di serpi cala sulla testa del santo, avvolgendosi intorno all’aureola, cingendogli il collo e scendendo come un vibrante mantello lungo le spalle.
La folla trattiene il fiato in attesa di leggere, nei movimenti delle spire, segnali e auspici per il futuro. Se i serpenti coprono gli occhi della statua, si preannuncia un anno di fatiche e avversità. Per fortuna anche quest’anno (2019) lo sguardo di San Domenico è emerso dal groviglio di rettili, scatenando l’applauso liberatorio e festoso della piazza.
Inizia la processione, e il lungo serpentone – giusto per restare in tema! – di fedeli e turisti si snoda per le vie del borgo, seguendo San Domenico avviluppato dalle serpi. Il simulacro è preceduto dalla banda musicale e da un gruppo di ragazze in costume tradizionale munite di ceste contenenti i “ciambellati”, pani sacri in ricordo di un altro famoso miracolo dell’abate benedettino. Un tempo, alla fine della processione, i serpenti erano portati in chiesa mentre oggi vengono liberati nel bosco, restituiti al loro habitat dopo la parentesi mondana di cui sono stati protagonisti.
Ragazza in abito tradizionale Portatrice di cesta con i cimbellati
Molti visitatori riprendono la strada di casa, mentre altri approfittano della maggior calma per affrontare le proprie paure, avvicinando e accarezzando il serpente per vincere un’avversione istintiva che spesso ci si porta dietro senza saperne il motivo. Anche in questo risiede il legame atavico con la tradizione, con quel mondo selvaggio cui apparteniamo e che continua a esercitare su di noi un fascino arcano e irresistibile.
Per approfondire:
Tradizioni a confronto: Lu lope e i serpari di Pretoro